Addio a Gianni Berengo Gardin: maestro italiano della fotografia

di Moreno Stracci
È morto oggi, 7 agosto 2025, a Genova, Gianni Berengo Gardin, maestro indiscusso della fotografia italiana, testimone sensibile e rigoroso dei mutamenti sociali, culturali e paesaggistici del nostro Paese. Aveva 94 anni.
Nato a Santa Margherita Ligure nel 1930, formatosi tra Milano e Venezia, Gardin non fu un fotografo “di moda”, né mai inseguì estetismi gratuiti. La sua fu una fotografia etica, documentaria, profondamente umana. Scelse il bianco e nero come linguaggio definitivo, rifiutando il colore perché – a suo dire – distraeva dalla verità.
Uno sguardo che abbraccia l’Italia
Nei suoi scatti, l’Italia del secondo Novecento si mostra in tutta la sua complessità: i manicomi prima della legge Basaglia, i matrimoni, i mercati, gli zingari, le stazioni, le fabbriche, gli artigiani, le lotte operaie, le grandi opere, il degrado e la bellezza. Un’umanità osservata con rispetto, mai giudicata.
Il volume “Morire di classe” (1969), realizzato insieme a Carla Cerati con testi di Basaglia, è rimasto uno dei più sconvolgenti atti di denuncia sociale mai pubblicati in Italia. Ma Gardin fu anche il fotografo della vita quotidiana, dei gesti semplici, dei silenzi colti tra una risata e un’ombra.
Oltre 260 libri e 360 mostre
Con oltre 260 volumi fotografici e più di 360 mostre personali in Italia e nel mondo, Gianni Berengo Gardin ha costruito un archivio visivo unico, che documenta sessant’anni di trasformazioni. Ha lavorato per grandi giornali e riviste, collaborato con architetti come Renzo Piano e aziende come Olivetti e Fiat, sempre mantenendo uno sguardo personale, mai asservito al committente.
Riconoscimenti internazionali
Tra i numerosi premi ricevuti: il World Press Photo nel 1963, il Premio Brassaï nel 1990, l’Oskar Barnack Award nel 1995, e il prestigioso Lucie Award alla carriera nel 2008. Nel 2009 ricevette la laurea honoris causa dall’Università Statale di Milano.
Una fotografia per “capire”
“Una buona fotografia deve essere letta, non solo guardata“, amava dire. Il suo lavoro era un atto di fiducia nella fotografia come strumento per capire, per riflettere, per entrare in contatto con l’altro. In un’epoca dominata dall’immagine effimera e dalla velocità digitale, Gardin ci ha lasciato lenti sguardi densi di senso, capaci di resistere al tempo.
Con la sua morte si chiude un’epoca, ma si apre – forse – una riflessione necessaria su cosa significhi davvero fotografare: non solo “fare belle foto”, ma abitare il mondo con consapevolezza.