L’estetica del terrore: quattro capolavori che indagano l’ombra dell’animo umano
di Moreno Stracci – Critico e storico dell’arte e della letteratura
La storia dell’arte non è solo l’esaltazione del bello e dell’armonia; è anche un incessante scavo nelle profondità dell’esperienza umana, esplorando l’orrore, l’angoscia e il soprannaturale. Questi temi, pur non essendo direttamente collegati alle moderne celebrazioni come Halloween, costituiscono le fondamenta iconografiche del macabro.
Analizzeremo brevemente quattro opere seminali che, ciascuna nel suo contesto storico e stilistico, hanno saputo distillare il terrore visivo, lasciando un’impronta indelebile nella percezione collettiva dell’inquietante.
Il Grande Caprone (o El Aquelarre) – Fancisco Goya 1797-1798)
Il Grande Caprone (o El Aquelarre) fa parte di una serie di sei piccole tele, note come “Stregonerie”, commissionate dai Duchi di Osuna per decorare il loro palazzo di campagna, El Capricho.
In quest’opera, Goya affronta il tema del Sabba delle streghe con un tono che è ancora in bilico tra il fantastico, il satirico e l’inquietante. La scena, ambientata in un paesaggio lunare e notturno, è dominata da un’enorme figura centrale: un Caprone (il Diavolo), rappresentato in un semicerchio di streghe e devoti.
Le figure che circondano il Caprone sono caratterizzate da volti grotteschi e espressioni di timore e venerazione. La composizione culmina con un orribile dettaglio: in primo piano, sul terreno, giacciono i piccoli corpi di bambini morti o sacrificati, mentre uno stormo di pipistrelli vola sulla scena.
Sebbene la scena sia macabra, i colori non hanno ancora la cupezza assoluta delle opere successive. Goya usa la stregoneria come veicolo per la critica sociale illuminista: l’opera è una denuncia contro la superstizione, l’ignoranza e l’oppressione della Chiesa e dell’Inquisizione. Goya demistifica questi riti, mostrando come l’irrazionalità e la paura siano i veri demoni che governano le masse.
Questa prima versione de El Aquelarre mantiene un’aria quasi teatrale e caricaturale, un’ironia sottile, sebbene inquietante, che preannuncia le atmosfere più disperate della sua fase tarda.
Il Sabba delle Streghe (El Gran Cabrón) – Francisco Goya (1820-1823)
Quest’opera di Francisco Goya (1746–1828) si colloca nel periodo delle celebri Pitture Nere.
A distanza di oltre vent’anni dal primo Aquelarre, Goya torna sul tema della congrega di streghe, ma lo fa con una ferocia e un pessimismo assoluti, tipici delle sue Pitture Nere.
Questo dipinto fu originariamente realizzato su una delle pareti della casa di Goya, la Quinta del Sordo, e non era destinato al pubblico. Lo stile riflette la completa disillusione dell’artista, ormai anziano, sordo e testimone delle brutalità politiche del restaurato assolutismo spagnolo.
La scena è drammaticamente ridotta all’essenziale e dominata da un’oscurità quasi totale. Il Diavolo (il Caprone, El Gran Cabrón) è meno definito rispetto alla versione precedente, una sagoma scura e massiccia che occupa la metà destra della tela. Egli parla a una folla informe di figure umane che lo circondano, i cui volti sono deformati dal terrore, dalla stupidità o dall’estasi.
Il quadro non è più una satira, ma una condanna. Goya sembra mostrare come la massa, rinunciando alla ragione, si trasformi in un “gregge” ipnotizzato e mostruoso, sottomesso alla paura e al potere cieco (che sia Satana o la tirannia politica).
La pennellata è ruvida, veloce e violenta. Partendo da un fondo nero come la pece, il colore è ridotto a toni scuri (neri, marroni e grigi), con accenti di bianco e giallo-ocra che servono solo a sottolineare le espressioni di angoscia.
L’opera è un incubo visivo, una meditazione sulla bestialità umana e sull’assenza di speranza. A differenza del Grande Caprone del 1797, qui è scomparso ogni elemento di ironia o narrazione fiabesca, lasciando solo l’orrore puro. È l’apice del Goya romantico e il precursore più diretto dell’Espressionismo moderno, elogio alla dicumanizzazione delle masse.
Incubo (The Nightmare) – Johann Heinrich Füssli (1781)
Capolavoro del Romanticismo e precursore dell’indagine sul subconscio, l’Incubo di Johann Heinrich Füssli (1741–1825) rappresenta uno dei primi tentativi sistematici di tradurre in pittura un’esperienza puramente interiore e psicologica: il terrore paralizzante del sonno.
La composizione è fortemente teatrale. Una donna, modellata con una sensualità quasi melodrammatica, giace riversa sul letto, la sua posa suggerisce vulnerabilità e soffocamento. Due elementi iconografici distinti e potenti si combinano: l’Incubus, la creatura demoniaca, seduta sul petto della dormiente, personificazione diretta dell’oppressione fisica e dell’angoscia tipiche della paralisi del sonno (un fenomeno che all’epoca era spesso interpretato come un attacco demoniaco) e la Testa di Cavallo, l’apparizione equina, selvaggia e spettrale, che irrompe dallo sfondo scuro e aggiunge un elemento di orrore gotico e bestiale. La sua presenza è stata interpretata come un simbolo di desiderio sessuale represso o come l’irruzione della dimensione irrazionale e ctonia.
Füssli non si limita a dipingere un evento, ma ne cattura la sensazione disturbante, inaugurando un filone pittorico che esplorerà le zone d’ombra della psiche.
Volto della Guerra (El rostro de la guerra) – Salvator Dalí (1940)
Realizzato da Salvador Dalí (1904–1989) all’inizio del secondo conflitto mondiale, questo dipinto è una delle più pregnanti allegorie dell’orrore bellico concepite nell’ambito del Surrealismo.
L’opera si sviluppa su un paesaggio desertico e desolato, l’unico sfondo possibile per la manifestazione di un orrore assoluto. Il soggetto dominante è una testa scheletrica e mostruosa, che si staglia in uno stato di avanzata decomposizione.
La chiave di lettura dell’opera risiede nella sua struttura interna, un tipico espediente surrealista: all’interno della bocca e delle orbite vuote della testa principale, Dalí inserisce in maniera ricorsiva altrettante teste. E questo schema si ripete all’infinito.
Questa composizione a matrioska macabra non è un semplice memento mori, ma un commento nichilista e terrificante sul ciclo incessante della violenza. La guerra (la testa principale) non è un evento isolato, ma una macchina che si autoalimenta, generando solo altra morte e terrore al suo interno. Dalí traduce l’orrore politico e storico in un incubo personale e universale, utilizzando il suo vocabolario di figure biomorfe e di paesaggi metafisici per esprimere la totale disperazione dell’umanità.
Le opere di Goya, Füssli e Dalí, pur separate da secoli e da movimenti artistici distinti, convergono in un medesimo e fondamentale obiettivo: indagare la geografia del terrore umano e di come questo terrore possa portare alla disumanizzazione delle masse. Goya utilizza l’ombra per smascherare l’ignoranza sociale; Füssli per sondare l’irrazionalità del sogno; Dalí per visualizzare l’orrore della storia.
In definitiva, questi dipinti trascendono la mera rappresentazione del macabro. Essi diventano specchi potenti e permanenti delle paure umane, dimostrando che l’arte più alta non teme di confrontarsi con l’ombra, trasformando l’angoscia interiore e l’orrore collettivo in una forma estetica universale e duratura. Sono, per usare un paradosso critico, i capolavori immortali dell’effimero spavento.
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