SPECIALE: Giuseppe Cesaro, una vita da ghostwriter

SPECIALE: Giuseppe Cesaro, una vita da ghostwriter

di Pamela Stracci

Giornalista e scrittore, ghostwriter di professione, Giuseppe Cesaro ha pubblicato articoli, racconti, romanzi e graphic novels, e ha collaborato alla realizzazione di vari romanzi, mémoire, saggi, biografie e sceneggiature per i più importanti editori nazionali. Musicista, dal 1998 è consulente artistico e ai testi di Claudio Baglioni. Ha sceneggiato “Michelangelo – la parete perfetta” per Round Robin Editrice. Il suo romanzo d’esordio come autore è “Indifesa” per la Nave di Teseo.

La prima domanda: Come è nata la sua passione per la scrittura?

Ci sono caduto dentro, come Obelix nella pentola della pozione magica di Panoramix. Mio papà lavorava in uno studio-biblioteca, circondato da migliaia di titoli. “I miei amici”, li chiamava. A poco a poco, molti di loro sono diventati anche amici miei. A furia di “ascoltarli” raccontare le loro storie, ho cominciato ad avvertire il desiderio di scrivere le mie. E, dato che non sono belle come le loro, non ho ancora smesso. Chissà: forse, un giorno riuscirò a ridurre almeno un po’ la distanza che le separa. 

Nel suo libro “Manuale per aspiranti scrittori”, lei afferma che “la scrittura è un mestiere che si può imparare”. Potrebbe approfondire questo concetto, fornendo consigli pratici ai nostri lettori che aspirano a diventare scrittori?

Imparare a scrivere si può. Parlo del come, ovviamente, non del cosa. Il lavoro dello scrivere, cioè. La creatività non si insegna. O c’è o non c’è. Un metodo di lavoro, invece, sì. Nel manuale, racconto il mio: quello che mi sono cucito addosso, errore dopo errore, in questi quasi quarant’anni di scrittura. Consigli pratici, non filosofie. Una specie di mappa che segnala strade e trappole da evitare. Una sorta di “kit di sopravvivenza” per navigare l’Oceano, affascinante ma infido, della scrittura.

Lei è consulente ai testi di un grande artista come Claudio Baglioni. Come ha sviluppato il rapporto di fiducia con lui, e quali sono gli aspetti più delicati della vostra collaborazione?

Credo che le parole chiave siano autenticità e trasparenza. L’artista deve sapere chi sei e che si può fidare di te. Sempre. Cosa che, a dire la verità, dovremmo fare con tutti gli esseri umani. Il resto, si costruisce passo dopo passo, pensiero dopo pensiero, silenzio dopo silenzio, parola dopo parola. Un percorso incredibile ma enormemente impegnativo. Ogni volta, è come scalare un ottomila in coppia: fatica e responsabilità sono immense. Quando arrivi in vetta, però, il panorama ti ripaga di qualunque sforzo.

In un recente articolo pubblicato, ha espresso la sua opinione sul ruolo della tecnologia – e in particolare dell’Intelligenza Artificiale IA – nella scrittura riferendosi al versetto 5:13 del Vangelo di Matteo “Voi siete il sale della terra. Ma, se il sale diventa insipido, con cosa sarà salato?”. Qual è il suo rapporto con gli strumenti digitali e in particolare con l’IA, e come li utilizza nel suo processo creativo?

L’innovazione arriva e stravolge tutto. Con o senza il nostro permesso. Ignorarla è follia. E non esistono tecnologie buone e tecnologie cattive. Dipende da noi: dall’uso che ne facciamo. L’IA mi affascina e mi terrorizza. Perché il potenziale distruttivo è immenso e la mia fiducia nell’essere umano, ogni giorno più scarsa. L’IA ricorda l’atomo: nelle mani sbagliate, è la fine. E le mani giuste, ahimè, scarseggiano. Non la utilizzo nel mio processo creativo. Belle o brutte, preferisco che le mie pagine siano mie. Dalla prima all’ultima parola.

Lei è molto attivo sui social media, dove spesso condivide riflessioni sulla scrittura e sulla vita. Come pensa che la comunicazione online possa influenzare il lavoro di uno scrittore?

 

Rete e social influenzano tutto: immaginario, pensieri, desideri, obiettivi, linguaggi. Non serve rifiutarli: vanno avanti anche senza di noi. Bisogna conoscere, capire, meditare e scegliere. Ha ragione Eco: hanno dato “diritto di parola a generazioni di imbecilli”. Indietro, però, non si torna. È un virus impossibile da debellare. Dobbiamo trovare anticorpi che impediscano loro di annientarci. Abbassare il volume dei social e alzare quello della bellezza. Se è vero che salva il mondo, salverà anche noi. In questo, certi “amici” di mio papà fanno davvero la differenza.

Parliamo di guerra! Nel suo thriller storico “31 aprile. Il male non muore mai” ci invita a riflettere sui pericoli del neonazismo e sull’importanza di difendere i valori democratici e di combattere l’odio e la discriminazione. In questo periodo storico dove la guerra è di fatto dietro l’angolo – pensiamo ad esempio al conflitto tra Israele e Palestina o alla guerra tra Russia e Ucraina o quella nello Yemen – secondo Lei “Love is the answer”, per dirla con le parole di John Lennon?

Dovrebbe esserlo, sì. Parlo dell’amore vero, non degli sdilinquimenti o dei palpiti di certe anatomie. Credo sia l’energia più potente che esista in natura. Basta pensare a cosa riesce a fare l’amore di una madre per i propri figli. Il problema è che pochissimi hanno la voglia, il coraggio, la forza e la pazienza di amare davvero. Forse perché è amare contro natura. Del resto, se così non fosse, non ci sarebbe bisogno di un comandamento che ci impone di farlo, non le pare? E, infatti, gli esseri umani si massacrano da sempre. E temo che continueranno per sempre.

Parliamo ancora di amore, di una storia d’amore, quella di Giuseppe (Nino) Sgarbi, padre di Vittorio ed Elisabetta. Nino perde l’amata moglie Caterina detta Rina, dopo 65 anni di matrimonio. La figlia, Elisabetta, insiste per mettere in parole questa storia d’amore immortale. Lei è stato il confidente di Nino, il ghostwriter che ha trasposto il ricordo di questa storia d’amore permettendo a Nino di esordire nel 2014, all’età di 93 anni, con il romanzo “Lungo l’argine del tempo: memorie di un farmacista” che ha vinto il premio Martoglio e Bancarella. Una storia poi ripresa anche da Pupi Avati con la pellicola “Lei mi parla ancora”, interpretata da un inedito Renato Pozzetto e da Stefania Sandrelli nei panni della moglie, e un cast di artisti italiani come Alessandro Haber e Serena Grandi. Ma in questo film c’è anche lei, il ghostwriter, interpretato da Fabrizio Giufini. Dovute queste premesse, sono curiosa di sapere come ha fatto ad aiutare un ultranovantenne a diventare uno scrittore e che tipo di rapporto, che sintonia si instaura tra chi racconta la storia e chi deve attualizzarla su carta per un pubblico di lettori? Come si conciliano queste due epoche, questi due mondi per certi versi così distanti, quello di Nino che racconta il suo passato e quello di Giuseppe che deve raccontare queste memorie nel presente?

 

Mettere le mani nell’anima di un’altra persona esige delicatezza, pudore, rispetto. Bisogna ascoltare e meditare a lungo. Solo dopo, si comincia a scrivere. Con Nino si è creata un’inedita fusione di sensibilità che Avati ha colto e rappresentato magistralmente. Di fronte all’universalità dell’esistere, le differenze si sono dissolte per lasciare spazio alla poesia, come dimostra il fatto che Nino ha firmato quattro tra i migliori romanzi degli ultimi vent’anni. Una delle esperienze umane e professionali più significative del mio percorso di narratore.

Lei spesso ha parlato del suo lavoro di ghostwriter come “un’arte di invisibilità”. Mi torna alla mente il testo di Lawrence Venuti, “L’invisibilità del traduttore”. Lì si parla di trasportare la cultura di partenza in una cultura spesso molto distante. Il ghostwriter, invece, trasforma idee, immagino spesso disorganizzate, in parole quindi in letteratura. Si tratta in entrambi i casi di “scrittori invisibili” dedicati alla pazienza e alla trasparenza. Come si approccia a questo tipo di scrittura, e quali sono le sfide maggiori che ha incontrato?

 

Con umiltà. Ce ne vuole davvero tanta per rinunciare alla propria voce. Soprattutto quando ti accorgi che l’altro è muto e pensa solo a rubare la tua. Cosa più frequente di quanto si pensi. Mi consolo pensando che certi libri sono un po’ come figli che dai in adozione a famiglie più facoltose, nella speranza che possano offrire loro più di quanto potresti fare tu. Quando, però, li vedo entrare nella nuova casa e so che non li rivedrò più, una parte di me scompare insieme a loro. È dura da accettare. Molto.

In un suo recente sfogo, ha dichiarato: “Dopo 25 anni di scrittura e 50 titoli pubblicati per alcuni tra i più importanti editori italiani, smetto di scrivere.” E prosegue: “Dopo tutti questi anni e tutti questi libri è fin troppo chiaro che l’editoria mi vuole come ghostwriter ma non sa che farsene di me come autore. Vuole la mia penna e le mie idee, non il mio nome”. Com’è la vita di un ghostwriter?

 

Dolorosa. Anche perché la figura stessa del ghostwriter fa capire che l’editoria ha rinunciato all’idea di scovare e promuovere talenti veri. Crea ibridi “tira-fatturato”. Prende una faccia bella e famosa, le innesta un cervello brillante e il gioco è fatto. Il resto, sono “salotti buoni”, recensioni e premi più o meno “sensibilizzati”. Le eccezioni ci sono, certo. Ma, come tutte le eccezioni, confermano la regola. La definiamo “industria culturale”, spesso, però, è industria e basta. Sforna libri come patatine: riempiono la pancia, ma non alimentano.

Qual è il consiglio che si sente di dare a un giovane che vuole intraprendere il mestiere di ghostwriter?

Pensaci bene: è una strada senza ritorno. Se lo fai nella speranza che gli editori ti notino e pubblichino le tue cose, sbagli. Soprattutto se sei bravo. Più sarai apprezzato come ghost, infatti, meno chance avrai di affermarti come autore. E, da benedizione, la tua bravura si trasformerà in condanna. Se, invece, ami i libri, ami scrivere e ti piace l’idea di contribuire a far nascere i figli degli altri, allora è un mestiere affascinante, che regala soddisfazioni silenziose ma intense e permette anche di fare incontri sorprendenti.

Grazie a Giuseppe Cesaro per questa interessante intervista!

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