Archeologia dell’ombra: perché l’uomo ha bisogno del macabro

Archeologia dell’ombra: perché l’uomo ha bisogno del macabro
Catacombe dei Cappuccini. Palermo, Sicilia (Italia) di Juan Antonio Segal CCBY2.0

di Pamela Stracci

C’è un’attrazione innegabile, quasi ancestrale, che ci spinge verso il “bello terribile”: la fascinazione per la morte, le ossa, i teschi, le cripte. Non si tratta di un gusto morboso fine a sé stesso, ma di un bisogno profondo e culturalmente radicato che ci accompagna fin dai tempi più antichi. È un richiamo all’ombra, un’archeologia dell’anima che ci invita a confrontarci con l’impermanenza dell’esistenza.

La morte come maestra: un ponte tra i mondi

Fin dalle prime civiltà, l’uomo ha tentato di dare un senso alla morte, non solo seppellendo i propri cari con cura, ma anche integrandola nel proprio immaginario visivo e simbolico. La morte non era vista come un tabù da nascondere, ma come una potente maestra, una soglia, un passaggio.

Già a Pompei, le tracce della tragedia che colpì la città ci mostrano una morte improvvisa e potente, quasi artistica nella sua violenza cristallizzata. I calchi dei corpi non sono solo reperti archeologici; sono memento mori vividi, testimonianza dell’effimero, che ci parlano direttamente attraverso i secoli. L’arte funeraria romana, con i suoi sarcofagi riccamente decorati, celebrava la vita del defunto ma senza mai eludere il tema del trapasso.

Il macabro sacro: arte e spiritualità nelle cripte

Con l’avvento del Cristianesimo, il rapporto con la morte si è arricchito di nuove sfumature. Il concetto di resurrezione e la vita eterna hanno affiancato la cruda realtà del decadimento corporeo, dando vita a forme d’arte e architettura uniche. Vediamo qualche esempio.

Le Cripte e gli Ossari: Luoghi come le Catacombe dei Cappuccini a Palermo o la Cripta dei Frati Cappuccini a Roma sono esempi lampanti di come l’umano abbia cercato un dialogo con la morte. Qui, migliaia di scheletri, mummie e ossa sono disposti in composizioni macabre ma artisticamente elaborate. Non sono semplici cimiteri, ma spazi di meditazione. L’allestimento di questi luoghi non è per terrorizzare, ma per ricordare al vivente la fugacità della vita e l’uguaglianza di tutti di fronte alla fine. I motti incisi, come il celebre “Ciò che voi siete, noi eravamo; ciò che noi siamo, voi sarete”, sono un invito pressante alla riflessione.

La Danza Macabra: Nel Medioevo, la “Danza Macabra” divenne un tema artistico ricorrente in affreschi e sculture. Personaggi di ogni ceto sociale danzavano con la Morte, a simboleggiare l’universalità del suo potere e la vanità delle distinzioni terrene. È un promemoria visivo dell’impermanenza.

Il “Bello terribile” e la consapevolezza

La fascinazione per il macabro risiede nel suo essere una soglia. Ci spinge a guardare l’indicibile, a confrontarci con la nostra stessa mortalità.

Memoria dell’Impermanenza: Contemplare un teschio o un’antica cripta non è celebrare la morte, ma celebrare la vita in prospettiva. Ci ricorda che il tempo è limitato, spingendoci a valorizzare il presente e a riflettere sul significato della nostra esistenza.

Stimolo alla Consapevolezza: Di fronte all’evidenza della fine, le nostre priorità spesso si chiariscono. Il macabro, nel suo linguaggio primordiale, ci scuote dall’indifferenza e dalla superficialità, fungendo da catalizzatore per l’individuazione e la comprensione di noi stessi. Come l’ombra junghiana, il macabro è una parte ineliminabile della nostra psiche che, se riconosciuta e integrata, può condurci a una maggiore pienezza e consapevolezza del nostro posto nel ciclo eterno di vita e morte.

L’archeologia dell’ombra ci rivela un bisogno profondo dell’uomo: quello di comprendere la propria finitudine non per esserne terrorizzato, ma per esserne ispirato a vivere con maggiore pienezza e consapevolezza. Il macabro è un linguaggio antico che, se ascoltato, ci sussurra verità eterne sulla nostra condizione umana.

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