Viaggio nell’aldilà degli Etruschi
di Pamela Stracci
Tra i popoli dell’Italia preromana, gli Etruschi furono tra i primi a elaborare una concezione complessa e stratificata dell’aldilà. La loro visione non si limitava a rappresentare la morte come fine, ma come trasformazione e passaggio verso un altro piano dell’esistenza. Le testimonianze archeologiche — pitture tombali, oggetti di corredo, iscrizioni e rituali funerari — ci restituiscono un universo religioso in cui la vita dopo la morte era una certezza, ma anche un viaggio oltre la soglia, pieno di prove, divinità e simboli.
Le fonti: tra archeologia e mito
Poiché la lingua etrusca non ci è giunta in testi letterari completi, la principale fonte di conoscenza sull’aldilà etrusco è l’archeologia. Le necropoli, letteralmente “città dei morti”, come quelle di Cerveteri (Banditaccia), Tarquinia (Monterozzi) e Orvieto (Crocifisso del Tufo), rivelano la profondità del pensiero religioso e simbolico di questa civiltà.
Le tombe, spesso costruite come vere abitazioni sotterranee, riproducevano gli ambienti domestici: letti, porte, travature lignee scolpite nella pietra. Tale continuità tra la casa dei vivi e quella dei morti indica che l’aldilà non era percepito come un regno estraneo, ma come prolungamento della vita terrena, in cui il defunto continuava a esistere in forma diversa, circondato dai propri beni, dalle armi, dagli oggetti quotidiani e, talvolta, dalla rappresentazione dei propri cari.
Il viaggio nell’oltretomba
L’immaginario funerario etrusco raffigura il passaggio all’aldilà come un viaggio. Le pitture di Tarquinia e di altre necropoli mostrano scene di transito, di incontro e di giudizio. Il defunto, accompagnato da demoni o divinità psicopompe, intraprendeva un percorso verso l’oltretomba — un regno sotterraneo o marino, governato da potenze infernali.
Tra queste spiccano Vanth e Charun.
Vanth, spesso rappresentata come una figura alata con una torcia o una pergamena, è una presenza femminile ambivalente: non minacciosa, ma guida compassionevole delle anime nel loro cammino post mortem.
Charun, dal volto demoniaco e armato di martello, è invece il guardiano del passaggio, custode delle soglie e delle punizioni. Il suo nome richiama il greco Charon (Caronte), ma l’iconografia etrusca ne fa un essere autonomo, con caratteristiche proprie, più affine a un demone ctonio che a un semplice traghettatore.
Insieme, queste figure simboleggiano il duale equilibrio tra morte e rinascita, tra paura e protezione: l’anima è accompagnata, ma anche messa alla prova, secondo un ordine cosmico che regola il destino umano.
Un esempio di questi concetti è ben riassunto dall’affresco nelle foto sopra, che ne rappresentano i due dettagli principali. L’affresco con queste due figure alate che fiancheggiano la porta di incresso alla sepoltura, proviene dalla Tomba degli Anina (o Tomba 5051), situata nella necropoli di Tarquinia.
Le due figure dipinte ai lati della porta di accesso all’interno della tomba non sono angeli, ma i demoni etruschi dell’oltretomba:
A sinistra (con barba e aspetto più “ferino”): Charun (o Caronte etrusco). È il demone maschile della morte, spesso raffigurato come custode della soglia dell’oltretomba o come rapitore delle anime.
A destra (figura femminile): Vanth. È la divinità femminile che annuncia la morte e accompagna i defunti nel loro viaggio verso gli Inferi. I suoi attributi costanti sono le grandi ali e una lunga torcia (o fiaccola) che usa per illuminare il cammino nell’oscuro aldilà.
La pittura, databile intorno al IV secolo a.C., si trova nella necropoli del Fondo Scataglini a Tarquinia, di fronte alla necropoli di Monterozzi. Larth Anina, il capostipite della gens che fece preparare la tomba, volle dipingere questi due demoni a guardia dell’accesso verso l’oltretomba.
Le tombe come “microcosmi dell’eternità”
Le tombe etrusche non erano solo luoghi di sepoltura, ma spazi sacri in cui si intrecciavano religione, arte e identità familiare.
Gli affreschi delle tombe dipinte di Tarquinia, come la Tomba dei Leopardi o la Tomba della Caccia e Pesca, raffigurano banchetti, danze e giochi atletici: scene di vita, ma anche metafore della continuità dell’esistenza. Il defunto partecipa a un convivio eterno, simbolo della sua integrazione nel mondo divino e nella memoria degli antenati.
In altre tombe, invece, compaiono immagini più drammatiche, come processioni di demoni o momenti di passaggio verso un aldilà oscuro. È il caso della Tomba dell’Orco o della Tomba dei Demoni Azzurri (in copertina), dove la pittura si fa strumento di riflessione sull’enigma della morte e sul destino ultraterreno.
Il mondo sotterraneo e le divinità ctonie
Gli Etruschi veneravano diverse divinità legate all’oltretomba, in parte derivate dal pantheon greco, ma reinterpretate secondo la propria sensibilità religiosa. Tra queste:
Aita (l’equivalente etrusco di Ade), sovrano del regno dei morti, talvolta raffigurato con la moglie Phersipnai (Persefone).
Culsu, demone armato di forbici, associata al taglio del “filo della vita”.
Tuchulcha, essere ibrido, con becco di avvoltoio e orecchie d’asino, custode delle soglie infernali.
L’aldilà etrusco appare dunque popolato da una moltitudine di entità: alcune benevole, altre terrifiche. Tuttavia, questo universo non è caotico, bensì regolato da un ordine divino (il fatum), espresso anche nei rituali divinatori come l’aruspicina e l’interpretazione dei fulmini. La conoscenza del destino, in vita come dopo la morte, era considerata parte della “scienza sacra” degli Etruschi.
Una visione etica e cosmica della morte
A differenza del mondo greco, dove l’Oltretomba poteva assumere connotazioni punitive, per gli Etruschi la morte non comportava necessariamente una condanna o una beatitudine eterna. Essa rappresentava una fase del ciclo naturale, regolata dalle stesse leggi cosmiche che governano la vita.
La sorte del defunto dipendeva dal rispetto dei rituali e dal corretto passaggio nella dimensione ultraterrena, più che da criteri morali. Tuttavia, la presenza di demoni custodi e di scene di giudizio lascia intravedere l’idea che le azioni in vita potessero influire sul viaggio dell’anima.
Simbolismo esoterico e attualità del messaggio etrusco
Dal punto di vista simbolico ed esoterico, la visione etrusca dell’aldilà conserva una sorprendente attualità. Essa riflette una concezione circolare della vita, in cui la morte non è negazione, ma trasformazione energetica e spirituale.
Il defunto non scompare: attraversa una soglia, muta forma, ma resta parte integrante del cosmo e della comunità degli antenati. In questa prospettiva, il rapporto tra vivi e morti non è di separazione, bensì di continuità: la memoria, i riti, le offerte e il rispetto per i luoghi sepolcrali servono a mantenere in equilibrio il dialogo tra i due mondi.
L’idea etrusca di un’anima accompagnata — mai sola nel suo viaggio — risuona anche nelle moderne concezioni spirituali, dove l’essere umano è visto come parte di un continuum tra visibile e invisibile, materia e spirito.
In termini simbolici, le tombe etrusche diventano “porte cosmiche”, spazi di passaggio tra dimensioni, testimoni di una fede profonda nel potere della trasformazione.
Oggi, visitando le necropoli di Tarquinia o di Cerveteri, non si percepisce soltanto il culto dei morti, ma una filosofia della vita: quella di un popolo che accoglieva la morte come ritorno alla Madre Terra, come rientro nel ciclo eterno della natura e delle stelle.
L’aldilà etrusco si configura come uno spazio complesso, dinamico, dove convivono elementi di timore e di speranza, di oscurità e di luce. L’archeologia ci mostra come questa civiltà, lungi dal temere la morte, la considerasse parte integrante del ciclo cosmico e spirituale dell’esistenza.
Nelle loro necropoli, vere città parallele a quelle dei vivi, gli Etruschi hanno lasciato impressa una verità universale: l’uomo non scompare con la morte, ma continua a esistere nella memoria, nel rito, e nel mistero che lega il visibile all’invisibile.
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